(Paolo Ruiz)
(Nota dell’autore- Quella che segue non è una raccolta di
date per un documento storico, anche se ho dovuto menzionarne alcune per
situare nel tempo lo svolgimento del lavoro di Padre Antonio Cianci. Non è neanche
una valutazione artistica delle opere, sebbene mi sia permesso di descrivere
le mie impressioni davanti alla magnifica rappresentazione dei personaggi
della storia sacra; voglio soltanto rendere omaggio al grande maestro francescano
che trova una sola menzione nell’internet ed è stato celebrato
in un articolo di S. Bonanno e di Vincenzo Ficara ne “La voce di
Canicattini”. Vorrei descrivere la personalità che è emersa
da alcune interviste a persone che lo hanno conosciuto durante la sua permanenza
in Canada, e soprattutto far conoscere il sacro fuoco della creazione che
lo spingeva a dei sacrifici enormi pur di trasferire sulla tela e l’intonaco
i volti della gente che incontrava, i volti dell’anima, una frenesia
che ha dovuto pagare con un’enorme sofferenza negli ultimi anni
della sua vita)
Era l’anno 1907, forse un giorno d’inverno, e Antonio,
che discendeva da una famiglia agiata di Canicattini, aveva deciso di
svelare il suo desiderio ai genitori. Da qualche tempo pensava assiduamente
di diventare prete e servire la chiesa magari con il suo talento artistico.
Aveva appena quattordici anni e si era già distinto per la facilità di
disegnare i vari personaggi che popolavano la sua immaginazione e i volti
della gente che conosceva. Come tutti i genitori che desiderano dare
al loro unico erede un futuro a loro immagine, per la continuità del
nome, i Cianci restarono stupefatti alle parole del figlio. Taciturno
e timido, aveva però la caratteristica di perseverare nelle sue
idee e nessuno avrebbe potuto distoglierlo dalla decisione, una qualità che
più tardi lo avrebbe fatto diventare un artista di fama internazionale.
Ci volle un anno prima di convincerli che la sua non era una fuga dal
mondo della competizione ma piuttosto un vero e proprio desiderio di
servire la chiesa. Entrò a far parte dell’Ordine dei francescani
l’anno successivo e prese i voti nel 1908.
Composi il numero che avevo trovato con l’internet. Di Caron ce ne sono
11 a Louiseville ma solo uno con l’iniziale M. Avevo letto che Olga
Storaci era sposata ad un certo Marcel Caron e tentai la sorte.

Mi rispose proprio Marcel e quando gli spiegai il motivo
della mia telefonata, lo sentii urlare “Olga pigghia il telefono,
c’è un tuo compatriota
che vuole parlarti”. Aveva usato un buon italiano e la parola
in dialetto siciliano mi sbalordì. Olga, che poi mi chiese
di chiamarla “zia
Olga”, fu subito interessata al mio progetto e accettò con
grande entusiasmo di concedermi un’intervista.
Louiseville è una piccola municipalità di 7,500 abitanti, cento
Km ad est di Montreal. La sua fondazione risale al 1665 quando i primi coloni
francesi s’installarono nella zona, e tutta la sua storia si svolge attorno
alla chiesa che ha condizionato la vita dei suoi parrocchiani fino a qualche
decennio fa. La chiesa fu inaugurata nel 1805. Impressionante è la devozione
degli abitanti che ne pagarono interamente la costruzione, e che nel 1873 donarono
$ 3,500 per ricostruirla, dopo che un incendio la distrusse. In quell’anno
raccolsero anche $ 800 per la cattedrale della vicina Trois-Rivières,
$ 228 per il santuario di Ste-Anne-de-Beaupré, $ 60 per un’opera
caritatevole e $ 150 per l’Opera Ste-Enfance. C’è da dire
però che i Louisevillois erano contrari alla scelta di un italiano per
il restauro della chiesa e per i suoi affreschi. La presentazione del progetto,
il costo dell’opera e la fama di padre Cianci trovarono il favore del
parroco e i lavori furono affidati all’impresa di Sebastiano Aiello,
un altro canicattinese che si è fatto onore in Canada.
La storia
di Olga
La famiglia Storaci è originaria di Palazzolo ma Olga è nata
a Siracusa e poi ha seguito la madre e le sorelle a Palermo, dove perse il
padre quando non aveva ancora due anni. Lo spirito ribelle e il desiderio di
vivere una vita libera dalle restrizioni familiari, tipiche della Sicilia del
dopoguerra, si manifestano nello sguardo penetrante con cui mi guarda. Le faccio
alcune domande affascinato dalla sua lucidità e dal coraggio che ancora
oggi, all’età di 86 anni, dimostra.
-Mio zio era molto timido, mi dice, dovevo parlare io con il
parroco e difendere le sue scelte.
Marcel la guarda con occhi attenti, ancora incantato dai tratti
del viso che ricordano una bellezza statuaria. Il suo ritratto,
dipinto da Padre
Cianci
nel 1956, ora in possesso della sorella a Siracusa, la mostra
sdraiata sul divano in una posizione che ricorda vagamente i
nudi del Tiziano
e la Maja
vestita di Goia.
- Alle due abbiamo un appuntamento con l’abate Guillemette,
le ricordo.
Si alza a fatica, mentre Marcello, da quel momento il suo nome
viene sempre pronunciato all’italiana, si alza premuroso
e le porge il bastone.
- Le mie ginocchia non sono più quelle di una volta, sospira.
Tutta colpa del tennis.
Non oso chiederle cosa le sia successo e le porgo il braccio
che lei prende con piacere. Mentre ci avviamo verso la chiesa, “zia Olga” mi parla
dell’avventura Canadese.
“Nel 1952 padre Antonio era arrivato in Canada e il 1° agosto dello
stesso anno aveva cominciato lo studio delle scene sacre. Ci fu un periodo di
temperata ostilità tra lui e chi lo aveva fatto venire dall’Italia,
benché il francescano fosse timido e di poche parole. Sebastiano Aiello
insisteva sull’uso di marmi pregiati e sgargianti, il Cianci rifiutava
le grandi superfici ornate con colori che avrebbero diminuito la drammaticità delle
sue immagini. Trovarono infine il giusto equilibrio e il restauratore riuscì a
soddisfare le domande di padre Cianci e le esigenze del parroco che dirigeva
il progetto. Utilizzò infatti con parsimonia e gusto diversi marmi: l’Aurora
e il Botticino di Brescia, il “Verde Issorie” della Valle d’Aosta,
il “Travertino” di Tivoli, il “Broccatello” di Siena,
il “Filetto rosso” di Bari, il “Rosso Verona”, il “Bianco
statuario” di Carrara, il “Rosso levanto”, il “Portoro
nero” di La Spezia, il “Rosso Amiata” di Roccalbenga e l’”Onice” del
Marocco. Gli schizzi del francescano furono approvati dal parroco Donat Baril
e dopo sei anni di lavoro, il 21 maggio 1957, gli affreschi furono terminati
a grande soddisfazione dei Louisevillois, che avevano prima mostrato una certa
diffidenza e reticenza per l’utilizzo di un artista straniero, ma che da
allora sono fieri di avere “la più bella chiesa del Canada”.
Il parroco ci apre la chiesa e ci guida verso l’altare, poi accende tutte
le luci per illuminare meglio gli affreschi. Li lascio ai loro discorsi e mentre
fotografo i dipinti da ogni angolo e con tutte le tecniche che conosco, mi
sento affascinato dai colori, dai visi, dal gioco delle luci sulle pieghe delle
vesti. Mi avvicino ad un affresco. In un angolo noto la firma di padre Antonio
e di Olga Storaci. Penso che il maestro, nella sua umiltà di francescano,
abbia voluto rendere omaggio alla nipote che ha collaborato alla realizzazione
di tanta opera. Osservo il gruppetto che chiacchiera, Olga mi lancia un’occhiata,
compiaciuta che io abbia scoperto il suo nome. Mi sento imbarazzato di aver
pensato ad un atto di umiltà da parte del maestro, capisco dallo sguardo
che anche lei ha partecipato alla scelta dei colori, ha contribuito allo sviluppo
delle scene che risentono del suo entusiasmo giovanile e della sua natura ribelle,
che l’opera la rende orgogliosa.
- Mi sono dovuta adattare allo stile di mio zio, mi svela dopo
la visita alla chiesa, ma anch’io ho fatto delle osservazioni
che lui ha accolto sempre con compiacimento.
Mi mostra il ritratto di una donna.
–
Lo tengo con la faccia al muro, mi dice, perché è troppo “mio
zio”(foto sotto).

Io noto invece le tracce di una natura molto diversa,
la contraddizione della donna siciliana, lo sguardo rassegnato e quasi
triste si contrappone alla
forza di carattere espressa dalla piega dei capelli
e il rigore dei tratti del viso.
Solo nelle pieghe del fazzoletto e nei colori si
vede l’influenza
del padre Cianci.
- Abbiamo lavorato ad encausto. Io scioglievo la
cera in una pentola su un fornello, aggiungevo l’acqua ragia e mescolavo le polveri colorate. Applicavamo
il miscuglio liquido e caldo sull’intonaco. Penetrava e asciugava velocemente.
Il risultato era sorprendente e gli affreschi sono rimasti con i colori vividi
che hai notato nella chiesa.

Abbiamo dovuto fare sette passaggi per ogni scena:
prima lo schizzo, poi la maquette colorata, l’ingrandimento, il trasferimento
sulla parete o sulla volta, le correzioni di prospettiva, l’aggiustamento
dei colori. Il lavoro era estenuante e padre Cianci
sembrava posseduto dal fuoco sacro della creazione.
A volte continuava
anche a notte
inoltrata.
- La chiesa è molto grande, chiedo, però i
vapori del solvente e le terre colorate, che fino
a qualche tempo fa erano
a
base di piombo
e di cromati, vi hanno dato certamente molti problemi.
- Altro che! Mi sono ammalata ed ho dovuto abbandonare
il lavoro dopo un anno. Sono tornata in Sicilia.
Mia madre e
le mie sorelle
mi accolsero
con sospetto
pensando ad un’altra delle mie scappate.
- Perché un’altra? le chiedo incuriosito.
Mi guarda di traverso, come se stesse per svelarmi
un segreto, mi strizza l’occhio
con lo sguardo da complice, poi guarda Marcello che
sorride sornione.
- Nel ‘52 mi volevano costringere a sposare un ricco possidente di Bivona
in provincia di Agrigento. Io insegnavo allora alla scuola d’arte e come
tutte le signorine di quel tempo, avevo accettato, mio malgrado, di sposarmi
senza conoscere il pretendente. Il pensiero di finire in una prigione, magari
dorata, non mi andava a genio e cominciai di nascosto le pratiche per espatriare.
Scrissi a mio zio che era già in Canada e
lui mi rispose subito scrivendomi che aveva bisogno
di
un assistente.
Sapeva
che ero brava
nel disegno e nella
pittura in generale. Immagina il putiferio che successe
quando annunciai che stavo partendo: mancavano solo
due settimane
al matrimonio!
Quando tornai in Sicilia, immancabilmente arrivò un’altra proposta
di matrimonio. Finsi di accettare; questa volta conoscevo il pretendente. Devo
ammettere che era molto simpatico, ma aveva venti anni più di me, e
poi avevo già adocchiato Marcello, che aveva
comprato il posto in chiesa vicino a quello che mi
era stato assegnato
per
la messa
della domenica.
- Si comprava il posto per la messa? Chiesi un po’ sorpreso.
- Era un modo di tassare i parrocchiani per il restauro
e le spese della chiesa. Ma torniamo al mio racconto.
Fu davvero
una fuga.
Restai solo due
settimane
e guarita come per miracolo dalla tosse e il mal
di testa che mi avevano obbligato ad abbandonare
lo zio, ritornai a Louiseville.
Forse il mal di
testa era causato
dal pensiero del mio spasimante che non osava dichiararsi
a parole ma che mi faceva la corte con i suoi sguardi
eloquenti.
Poi rivolto a Marcello: - Che aspettavi “a ronna Mara”?
Marcello sorride ma non commenta, forse non capisce
il richiamo tipico canicattinese.
- Un ventilatore ben piazzato e la posizione del
fornello vicino alla porta mi permisero di continuare
a lavorare
con lo zio,
a grande sollievo
di
Sebastiano Aiello, finì Olga.
Sebastiano Aiello,
un illustre Canicattinese
Avevo sentito parlare di Sebastiano Aiello; avevo
anche visto la grande insegna sulla via Sherbrooke,
a Montreal.
Decisi di intervistare
il
figlio per arricchire
la conoscenza di padre Cianci e scoprire forse qualche
quadro nascosto, magari in un salotto privato; il francescano
non smetteva mai di
dipingere ed era
affascinato dalle varie espressioni delle persone
che incontrava. Pare che abbia dipinto più di tremila ritratti.
L’emigrazione degli italiani all’inizio del secolo scorso fu considerevole.
Tra di loro ci fu Sebastiano Aiello che arrivò in Canada nel 1927 dopo
aver lasciato molte sculture nelle facciate delle case di Canicattini. Scultore
di grande talento e uomo d’affari straordinario, riuscì a creare
un’impresa che gode ancora di un successo notevole nel campo delle decorazioni
di chiese, edifici e monumenti funerari. Il nostro concittadino ha abbellito
le più belle chiese di Montreal, alcuni edifici del parlamento di Ottawa,
di Toronto, di Moncton e altre chiese e palazzi negli Stati Uniti. Si stabilì definitivamente
a Montreal nel 1939. In quel periodo gli italiani erano considerati dei “ladri
di lavoro” perché accettavano qualsiasi occupazione anche a basso
compenso. Dopo la guerra scelse di abbandonare la scultura, che non rendeva
tanto, e si dedicò alla vendita di monumenti. Il figlio Paul mi parla
delle difficoltà incontrate per ottenere qualche
contratto a causa del suo marcato accento italiano!
- Mi ricordo che quando ero un ragazzino, spesso
mi portava con lui, racconta. Un giorno bussammo
alla
porta di una
chiesa a
Trois-Rivières per offrire
i servizi di restauro. Il parroco ascoltò per qualche minuto poi ci
sbatté il portone della chiesa in faccia senza
dire niente.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, molti
italiani iscritti alla casa d’Italia e sospettati
di essere fascisti furono imprigionati senza ragione
e inviati
nel campo di concentramento
di Petawawa.
- Anche mio padre, continua Paul Aiello, fu tra i
sospettati sovversivi e i gendarmi si presentarono
per arrestarlo
mentre era a Moncton,
nel Nuovo Brunswick,
dove stava lavorando alla decorazione di una chiesa.
Fu solo l’intervento
del vescovo a salvarlo dalla prigionia che avrebbe
cambiato radicalmente il corso della nostra vita.
Era molto ricercato perché importava dall’Italia marmi pregiati,
che subito dopo la guerra si vendevano a basso prezzo. Nel 1952, il 23 aprile,
ottenne il progetto di restauro della chiesa Sant’Antonio di Padova,
a Louiseville, e fu questa l’occasione che portò padre Antonio
Cianci in Canada. Sebastiano conosceva già il
francescano che aveva decorato una chiesa a Palermo
e una a Messina.
Gli chiedo di parlarmi di Padre Cianci.
- Ero ancora un ragazzino, mi dice. Ricordo che gli
piaceva molto riprodurre i volti della gente di rilievo
a
Louiseville, e molti
dei santi, degli
angeli, dei pastori sono personaggi dell’epoca. In un affresco ci sono anch’io.
Me lo indica con il dito nella foto in bianco e nero
fatta da Padre Cianci alla fine del lavoro sulla
cupola. È il
ragazzo che tiene il calice.

Il miracolo
Tra le varie ricerche che mi ero prefisso, la più ardua e ahimè,
senza esito fu quella di trovare il quadro della “Madonna del Carmine”,
che nel libro di P. Filippo Rotolo su padre Antonio Cianci, è in bianco
e nero e ubicata nella chiesa omonima. Durante le varie vicissitudini della
chiesa, che dal centro di Montreal era stata trasferita alla municipalità di
St- Leonard, il quadro era sparito.
“
L’aveva dipinto nel 1956” mi spiegò Olga. “L’anno
successivo il quadro fu portato in processione per le strade di Montreal e
sembra che ci sia stato un miracolo che venne attribuito proprio all’immagine.
Avresti dovuto vedere la reazione di zio Antonio! Non l’avevo visto mai
così arrabbiato; gridava che il quadro l’aveva dipinto lui, ma
che il miracolo l’aveva fatto Dio.”
Il simbolismo della “Annunciazione” (figura
3)

Dal Vangelo di Luca: Al sesto mese Dio mandò l’angelo Gabriele
in una città della Galilea chiamata Nazareth a una vergine sposa di
un uomo di nome Giuseppe. Il nome della vergine era Maria. Entrò da
lei e le disse: - Salve, piena di grazia, il Signore è con te… Ecco
tu concepirai e darai alla luce un figlio. Lo chiamerai Gesù-
Quell’avvenimento straordinario è il momento più sublime
della religione cristiana: Maria diventa la madre di tutti gli esseri umani,
trasformandosi da umile donna in essere soprannaturale. Nell’affresco
di padre Cianci (tavola A) l’impronta francescana di umiltà e
accettazione della volontà suprema è messa in risalto nell’espressione
di Maria. Non c’è sorpresa, né paura, né rigetto,
come si è potuto notare altrove, nell’interpretazione dei vari
artisti che hanno dipinto lo stesso soggetto. L’angelo sta sulla sinistra
e le porge il giglio mentre con la destra indica il cielo. La stanza, aperta
su un paesaggio irrorato da una luce crepuscolare, è illuminata da una
sorgente divina che rischiara una colomba circondata da uno schiera di angioletti,
e poi sfiora Maria. È divisa in due dal vaso da cui si erge un altro
giglio. Notiamo che questo fiore non è soltanto il simbolo della purezza,
ma nel primo Medio Evo divenne anche la rappresentazione simbolica del Cristo;
proprio dal vaso, contenitore del seme, sorge alto il fiore. Ricordiamo anche
che il giglio è stato associato a numerosi Santi martiri, tra i quali
Sant’Antonio da Padova, ( la chiesa di Louiseville è dedicata
a questo santo), rappresentato con il fiore in mano per indicare la sua purezza,
nel corpo e nell’anima (tavola B).
Maria è su una pedana (più alta tra tutte le donne) e sta leggendo
il libro delle sacre Scritture; la testa è leggermente inclinata in
un atto di umiltà e il volto è sereno. La colonna che vediamo
in fondo è simbolo di forza e costanza.
Tutto è espresso in questa composizione: la scelta di Dio, l’accettazione
della sua volontà, la futura concezione.
La visione da statica (Gabriele prostrato
in una riverente
genuflessione,
Maria con la
mano tesa ad accettare
il dono), diventa trascendentale (la colomba
simboleggia lo spirito santo, la luce la
presenza di Dio, il
giglio il futuro Salvatore
del mondo).
La natività (figura 4)

Nel Vangelo di Luca leggiamo “La nascita di Gesù :… e diede
alla luce il suo figlio primogenito; lo avvolse in fasce e lo adagiò in
una mangiatoia, perché all’albergo per loro non c’era posto.
Vi erano in quella medesima regione dei pastori… or un angelo del signore
apparve loro…” vv 2,7-9
E nella profezia di Isaia 1-3 “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino
la greppia del suo padrone.”
La scena che padre Cianci ci mostra è piuttosto
singolare e vale la pena soffermarsi sulle
figure e il simbolismo che
ne scaturisce. (Tavola
C)
Mancano la mangiatoia, il bue, l’asinello e i re magi, che spesso erano
raffigurati nello sfondo. Vi notiamo una pecora, delle rovine, in alto a sinistra
una fortezza, che potrebbe essere Gerusalemme, e in basso un muro di pietra
(muro a secco) tipico della Sicilia. Anche i volti e gli indumenti di alcuni
pastori sono indubbiamente siciliani, c’è anche un tamburello.
L’angelo, gli altri pastori e San Giuseppe hanno le sembianze di alcuni
abitanti di Louiseville. La scena acquista una dimensione che va aldilà della
grotta che racchiude l’intimità dell’avvenimento e diventa
universale. Notiamo il cielo azzurro, le rovine di un tempio o di un palazzo.
Questa non è un’invenzione del nostro pittore, già Jacopo
da Varazze (1228-1288) nella Legenda Aurea scriveva che era una credenza pagana
che il tempio della Pace, a Roma, sarebbe crollato solo quando una vergine
avesse partorito, un’iperbole per dire “mai”. E invece i
pittori l’hanno utilizzata per significare come Dio può stravolgere
le leggi della natura.
Anche se il gruppo è raffigurato in un ambiente esterno, soleggiato
e allegro, non possiamo astenerci dall’osservare che la scena è intima
e piena di tenerezza, il movimento di ciascuno dei personaggi contribuisce
alla trascendenza della mera immagine bucolica e ci invita ad una riflessione
e meditazione. La figura principale è Gesù Bambino e il lenzuolo
bianco dà risalto alla purezza del nascituro che tutti guardano con
meraviglia. Più ci avviciniamo al significato dell’opera e più ci
sentiamo affascinati dalla spiritualità che l’artista
ha espresso attraverso forme e colori.
Il ritratto di George-Léon Pelletier
Volevo fotografare anche il ritratto di George-Léon Pelletier, vescovo
di Trois Rivières, che Padre Cianci aveva dipinto nel 1956. Olga me
lo aveva descritto come uno dei migliori dipinti dello zio e aveva svegliato
la mia curiosità. All’arcivescovato mi rispose un signore che
sembrava aspettasse con impazienza qualcuno per condividere le sue impressioni
sul quadro. Aveva cercato invano sull’internet
notizie del fantomatico Padre Antonio Cianci ma
era riuscito a
trovare solo
qualche accenno
ai dipinti di Louiseville.
- E porti anche la signora Olga Storaci se
viene a Trois-Rivières, mi
raccomandò.
Decisi di continuare l’esplorazione dell’opera del maestro Canicattinese
e, fissato l’appuntamento con il segretario, mi recai con Olga e Marcello
alla cattedrale di Trois-Rivières. La stanza con enormi quadri che celebrano
vari cardinali e vescovi di quella città era sobria e tappezzata con
tende di velluto pesanti e di color granato. La luce del pomeriggio inoltrato
filtrava a stento dalle tende delle due finestre. Avevo portato con me dei
fari, lampade e prolunghe prevedendo il bisogno d’illuminazione
supplementare.
Invece di mettermi subito al lavoro, deposi
il mio bagaglio sul tappeto scuro e osservai
le
immagini imponenti di
quei porporati
che avevano
contribuito alla storia del Quebec. Fui invaso
da
un’emozione strana, non mi era
mai capitato di abbandonarmi totalmente al sentimento che un ritratto, per
quanto bello, aveva suscitato. I quadri, imprigionati nelle grandi cornici
dorate, scolpite in uno stile barocco non troppo elaborato, erano forse due
metri di altezza e un metro e mezzo di larghezza. Lo stile dei tre a sinistra
denotava la mano di un solo artista: lo sfondo scuro contrastava con la pelle
diafana dei vescovi, quello sulla parete destra era totalmente diverso nel
suo sfondo viola chiaro e mostrava un carattere gioioso e giovanile di un personaggio
che pareva sforzarsi per mostrare la serietà del suo mandato. Li osservavo
con la meraviglia di chi scopre la forza interiore che uno sguardo, il sorriso
appena abbozzato, la postura delle figure e soprattutto la posizione delle
mani incutono a chi si trova davanti ai grandi del passato. Non riuscivo a
superare quell’emozione e cercavo di interpretare il carattere che il
pittore era riuscito a far scaturire dagli occhi; avevo dimenticato che ero
là par il ritratto di Georges-Léon
Pelletier, dipinto da padre Antonio Cianci. Stordito
da quelle
immagini che vivevano
di una
vita propria
davanti ai miei occhi, non mi ero accorto che il
segretario mi stava parlando.

-… e le mani sono piuttosto sproporzionate,
non crede?
Ritornai alla realtà e mi avvicinai
al quadro.
- No, dissi semplicemente, la dimensione
delle mani non mi disturba affatto. La
finestra invece…
Lasciai la frase in sospeso. Quella finestra
mostrava un paesaggio che non assomigliava
a quello tipico
del Quebec
ma sapeva tanto
d’Italia: una
catena di montagne, una distesa d’acqua,
un albero con i colori autunnali.
Fissai attentamente ogni dettaglio mentre
il segretario mi diceva che il vescovo
era un
entusiasta amante
della natura
e nei momenti
di riposo
si
recava in
una casa di campagna in riva ad un lago,
nella foresta della Mauricie. Oltre al
tipico paesaggio
italiano
vi trovai anche
la calma del
fiume St.Maurice, che scende maestosamente
e si divide in tre rami prima
di mischiare le
sue
acque a quelle del gran San Lorenzo.
(Da qui il nome della città che
sorge proprio allo sbocco dei tre rami). Avevo percorso varie volte la strada
che corre lungo quel corso d’acqua che in alcuni punti, dove le sponde
sono lontane, diventa un lago. Mi aveva sempre ispirato un sentimento di calma
e di serenità.
Il dipinto è piccolo paragonato agli altri in quella stanza, ma la forza
che emana è la più straordinaria. Le montagne e l’acqua
sembrano liberare lo spirito del personaggio dai suoi abiti talari e dalla
severità della stanza in cui è dipinto.
Dopo aver accettato il simbolismo della
finestra e la sua natura, segno dell’amore
del vescovo per la campagna, mi lasciai conquistare dal magnetismo di quello
sguardo così penetrante dietro gli occhiali chiarissimi e dal sorriso
ambiguo che ricordava vagamente l’arte del grande Leonardo. Invece di
trovarvi la “storia” emotiva del prelato ebbi la netta sensazione
che l’emozione suscitata da quel ritratto venisse direttamente dal cuore
di padre Antonio Cianci. L’artista era riuscito a trasferire sulla tela
la propria anima, ad infondere nei tratti del viso e nella severità dell’abito
il sentimento che lo spingeva a seguire la sua missione di francescano, umile
e orgoglioso, forte nella fede e sicuro nella sua arte. Si era servito di una
foto in bianco e nero e dell’impressione
che aveva avuto durante le discussioni
che avevano preceduto
la
prima pennellata.
La precisione dei dettagli denota la
grande maestria di un artista all’apice
della sua arte: il crocefisso, l’anello, i bottoni, le pieghe della mantellina,
ma soprattutto la profondità dello
sguardo, il colore del viso, il sorriso…
Nel 1957 l’opera fu terminata e consegnata agli abitanti della
cittadina che l’accolsero senza fanfara nè riconoscenza
per tanto lavoro e dedicazione. Solo adesso comincia a sorgere nella
coscienza collettiva l’orgoglio per il grandioso patrimonio lasciato
da uno dei più grandi pittori di arte sacra del ‘900. Louiseville è diventata
una meta turistica molto importante e noi possiamo essere fieri di
annoverare tra i maggiori esponenti canicattinesi un umile francescano
di nome Antonio
Cianci.
Riportiamo nelle tavole successive: Sant’Antonio
da Padova (figura1), Il Sacro Cuore (figura 2), l’Assunta (figura
5) l’Assunta, particolare (figura6),
San Giuseppe (figura 7), la Trinità, affresco sulla cupola (figura
8) e la chiesa di Louiseville
Sant’Antonio da Padova (figura 1)

Il sacro Cuore (figura
2)
L’Assunta (figura 5)

L’Assunta, particolare (figura 6)

San Giuseppe, particolare (figura 7)
La Trinità (figura 8)

Chiesa di Sant’Antonio da Padova (Louisville,PQ,
Canada)